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La grande fabbrica delle parole

Aggiornamento: 2 lug 2024

di Clara Sorce





Quando da bambina mi sono trasferita dalla città alla campagna spesso viaggiavo per l’autostrada per recarmi al centro abitato del capoluogo siciliano, Palermo. In quei momenti mi capitava di vedere le alte ciminiere di una fabbrica. Spesso fantasticavo e mi perdevo nell’immagine di quelle grandi bocche dalle quali si sprigionava un fumo nero. Ero una bambina e pensieri “reali” non mi affioravano alla mente, al loro posto, solo storie frutto della mia immaginazione.

Oggi la fabbrica ha chiuso i suoi cancelli, troppo pericolosa per gli abitanti, e le fantasie della mia fanciullezza sono state sostituite con pensieri più “reali” legati alla preoccupazione sull’inquinamento e la saluta degli abitanti. Proprio in questo presente, da adulta, ho potuto leggere un albo che mi ha fatto ricordare quel tempo in cui fantasticavo facendomi rendere conto quanto quelle fantasie fossero state più reali e concrete che mai. Si tratta dell’albo La grande fabbrica delle parole di Agnès de Lestrade e Valeria Docampo, edito da Terre di mezzo.



Quando apriamo l’albo a darci il benvenuto è una risguarda rossa con piccoli tocchi neri, il colore caldo con le piccole macchie nere ricorda il lavoro in fabbrica, il calore, lo sporco del fumo. Su questo sfondo volano leggeri, piccoli coriandoli di carta, queste presentano delle lettere.

Questa accoglienza fa calare il lettore in un mondo altro dove i colori sono caldi ma al contempo cupi. Ci troviamo in un paese dove le persone non parlano quasi mai.


È il paese della grande fabbrica delle parole


Valeria Docampo illustra il paese della grande fabbrica delle parole magistralmente.

Un paese fatto di piccole case dai tetti rossi sormontato da una grande torre grigia fatta di ingranaggi e bulloni. Sulla cima un’imboccatura, la cui forma ricorda un omino, dalla quale fuoriescono delle lettere.

L’illustrazione rievoca La città industriale di Charles Dickens il quale scrisse:


Era una città fatta di mattoni rossi, o meglio di mattoni che sarebbero stati rossi se il fumo e la cenere lo avessero permesso; ma, per come stavano le cose, era una città di macchinari e di lunghe ciminiere, dalle quali strisciavano perennemente interminabili serpenti di fumo, che non si stritolavano mai.

I “serpenti di fumo” qui vengono sostituiti delle lettere e parole. La Docampo nella forma della sua fabbrica rievoca alla mente l’opera di Pieter Brugel il Vecchio, Grande Torre di Babele datata 1563. Come nel dipinto dell’artista fiammingo la grande torre occupa maestosamente la scena, dominando il paesaggio.

Chi erano gli abitanti del paese della grande fabbrica delle parole? Cosa fabbricasse la fabbrica era già insito nel nome: fabbricava parole e i suoi abitanti erano persone che non possedevano le parole per pronunciarle bisognava comprarle e inghiottirle.

Bisogna sapere che la fabbrica lavorava giorno e notte costantemente per produrre parole in tutte le lingue del mondo, ma non tutti potevano permettersi di acquistare le parole prodotte da essa.

Chi non ha soldi fruga nei cassonetti ma non sono parole interessanti o gentili,


Ci sono un mucchio di carabattole e fichi secchi

E ciò accade anche in primavera quando è possibile acquistare parole in offerta speciale.

In questo viaggio tra i vicoli e gli scorci del paese della grande fabbrica delle parole notiamo una piccola figura di un bambino che sta defilato dalla scena sempre presa dai robot produttori della fabbrica. Proprio i bambini sono coloro che si armano di retino per acchiappare le parole che volteggiano in aria, così


la sera, a cena, sono fieri di poter dire qualcosa ai propri genitori.

Proseguendo nel racconto scopriamo l’identità del bambino, lo stesso che figura in copertina, si chiama Philèas. Philèas, come molti altri bambini, munito di retino per catturare le farfalle, al loro posto cattura parole che conserva con cura per una persona speciale. Quella persona è Cybelle.


Philèas è innamorato di lei. Gli piacerebbe molto dirle “Ti amo”, ma non ha abbastanza soldi nel suo salvadanaio. Allora, le offrirà le parole che ha trovato:
“Ciliegia, polvere, seggiola”.

La piccola Cybelle abita nella strada accanto e Philèas si reca a casa sua. Non potrà pronunciare né un saluto né altre parole, i due si scambiano sguardi e dolci sorrisi. Ma Philèas dovrà fare i conti con Oscar il suo rivale. Oscar proviene da una famiglia ricca e per l’occasione si è potuto permette una profusione di parole ma Cybelle sembra non badarci, attende qualcosa che viene dal profondo del cuore, qualcosa che tutto l’oro del mondo non può comprare. I sentimenti e la gentilezza. Philèas pronuncia con dolcezza quelle tre gemme preziose con cura e affetto, parole che vanno dritte al cuore della bambina. Le tavole si fanno man mano sempre più calde, rosso con le sfumatura dell’arancio tendenti al giallo che illuminano la scena. Una scala a chiocciola diviene il simbolo della vertigine dei sentimenti e le parole che volano in aria non sono più la disperazione ma la libertà. Cybelle non ha parole in serbo per il bambino ma solo un gesto d’affetto: un bacio sul naso. Questa volta Philèas rimane senza parole per lo stupore del sentimento corrisposto i due sono felici.


Quest’albo ci rammenta quanto le parole abbiano un valore, valore che non viene attribuito al giorno d’oggi. Un valore non pecuniario ma significativo perché abbiamo un dono prezioso quello della parola che ci permette di esprimerci e di essere liberi. Spesso però usiamo questo dono negativamente come le ricche persone del paese della grande fabbrica delle parole. Parole che a volte feriscono più di lame.


Quanto detto sopra è ciò che si coglie ad una prima analisi dell’albo ma se si scava nelle sue profondità notiamo che ci sono rifermenti colti in linea con il pensiero di grandi autori, tra questi, Pier Paolo Pasolini. Il riferimento va a La scomparsa delle lucciole e la mutazione della società italiana, scritto pubblicato per la prima volta sul Corriere della Sera il primo febbraio 1975, successivamente lo scritto fece parte della raccolta Scritti corsari dello stesso anno.


Nello scritto Pasolini attraverso la simbologia della lucciola, animale che diviene l’emblema nella visone dell’artista di un mondo più puro e autentico, racconta con un linguaggio aspro la rapida ascesa dello sviluppo industriale provocato dal boom economico degli anni Cinquanta - Sessanta che ha portato con se l’inquinamento dell’aria e dell’acqua. A causa di ciò le lucciole scompaiono. Pasolini ci mostra la faccia negativa dello sviluppo moderno. Ciò ha portato a un cambiamento profondo sul modo di vivere e di pensare portando al trionfo del consumismo. Se pensiamo al messaggio profondo de La grande fabbrica delle parole non possiamo non pensare a tale riflessione che nel secolo scorso lo scrittore mette in luce con il suo scritto. Le parole portano ad “inquinare” l’aria e ancora esse stesse divengono merce del grande sistema consumistico del boom economico figlio degli anni Sessanta. Le parole perdono valore una volta divenute merce, divengo alla stregua di un oggetto economico di culto. Se riflettiamo sul complesso corale dell’albo troviamo un consumismo che condiziona le coscienze.


Gli esseri non sono più liberi, al contrario, sono mossi da un potere occulto e insidioso che determina azioni e pensieri. Gli automi. Se osserviamo bene le illustrazioni notiamo che sono degli automi che distribuiscono le lettere e le parole alla grande svendita e un piccolo automa come “l’elefante” in La città industriale di Dickens va su e giù scandendo la giornata degli abitanti con il suo tintinnio meccanico. Ancora Oscar, il rivale di Philèas, ossia colui che è talmente ricco che può permettersi di spendere una fortuna viene rappresentato dalla Docampo proprio come gli automi della fabbrica. Non vediamo il bambino in viso, solo un dettaglio: la sua bocca, il resto è coperto da una spessa veste di parola dalla testa ai piedi.


Lo scrittore definisce tale mutamento come “mutazione antropologica”, egli ha amato il popolo autentico, arcaico che nell’albo viene interpretato dai due protagonisti.

Philèas e Cybelle ci rammentano quanto siano preziose le parole e i gesti di gentilezza. Quei gesti autentici e veri che fanno l’essere “umano”. Loro ci rammentano che le parole sono gemme preziose e che non dovremmo farle volare via, loro ci insegnano a dare il giusto valore alle parole.


 

La grande fabbrica delle parole

Autrice: Agnès de Lestrade Illustratrice: Valeria Docampo Casa editrice: Terre di Mezzo Età consigliata: dai setta anni in sù

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