di Clara Sorce
Per il mio lavoro ho cominciato ad interessarmi di temi che riguardano l’Islam perché, dopo la rivoluzione, era cambiato tutto e, vivendo negli Stati Uniti, sentivo di aver perso ogni contatto con casa mia. Per certi versi, quindi, questo lavoro è il mio modo di scoprire e identificarmi con il nuovo Iran.
Queste parole sono state enunciate dall’artista iraniana Shirin Neshat. Artista esule che attraverso il suo lavoro riscopre e ritrova il contatto con le sue radici per leggere e identificarsi con il nuovo Iran, l’Iran della rivoluzione. La sua vita, come quella di molte donne, si divide in due. Un prima e un dopo la rivoluzione. La condizione di Shirin è ancor più particolare, lei è una nomade.
Cosa significa essere una nomade? Vivere in una terra straniera con assetti culturali differenti dalla propria, un mondo che, nonostante l’apertura all’altro, ancora predilige un’ottica di omologazione di una cultura europea o americana.
La storia della doppia vita di Shirin, come quella di molte donne, ha inizio il’ 1 aprile 1979 quando fu proclamata l'istituzione della Repubblica Islamica dell’Iran. Siamo agli albori della rivoluzione khomeinista in Iran. In quel periodo Shirin è una giovane donna che si trova negli Stati Uniti per motivi di studio. Appresa la notizia l’artista scelse di rimanere negli Stati Uniti, un’esule in terra straniera. La sua poetica e il suo linguaggio artistico maturò dopo un viaggio in patria. La riscoperta della terra natia e la presa di coscienza d’essere divisa in due, tra un prima e un dopo la rivoluzione, la portò a concepire un’arte di denuncia. Arte messaggera dei diritti umani.
Shirin Neshat, Rapture, 1999; installazione video, due canali, film 16 mm, bianco e nero, sonoro; Los Angeles, The Broad.
L’artista trovò un Paese completamente mutato da come lo ricordava. Il regime assunse fin dal principio una linea fortemente integralista, qualsiasi opposizione interna fu repressa con estrema durezza. L’Iran si spacca in due, tra chi sostiene un dialogo più aperto con l’Occidente, e i sostenitori dell’integralismo. In questo sfondo non hanno posto donne e bambini e questo Shirin lo percepisce. Decide di dar voce a chi non può esprimersi, con la sua arte lotta per i diritti umani, lo fa con medium forte: la fotografia, in bianco e nero, e la poesia.
Non è un caso che nell’Islam contemporaneo tra le forme d’arte più discusse vi sia la fotografia, paradigma della rappresentazione: la fotografia non è solo riproduzione, è anche specchio sdoppiato della realtà, una realtà traumatizzata e violenta. I rapporti che società islamica intrattiene con l’immagine sono estremamente complessi: non solo perché l’interpretazione neo-ortodossa dell’Islam ne vieta l’esistenza, non solo perché la civiltà musulmana ha sempre intrattenuto un rapporto ambiguo con l’immagine, ma essenzialmente perché l’arte fotografica realizza una sintesi di tutto ciò che una società - una civiltà - rifiuta o è incapace di vedere o di accogliere. Nelle fotografie di Neshat il miracolo dell’arte rende evidente l’accecamento nelle società dell’Islam contemporaneo, in cui le contraddizioni sono tali da sconfinare nei comportamenti schizofrenici. L’immagine diventa una questione di vita o di morte: l’artista deve poter uccidere l’immagine del reale per accedere alla vera realtà, come in un suicidio rituale. Nella figura quasi icona della donna-martire il fucile non è più arma ma scettro, simbolo del potere, sullo sfondo di frasi ipnotiche che si spezzano avvicinandosi al corpo della protagonista, fino a perdere totalmente di significato per divenire semplici segni calligrafici. Quei segni si diluiscono dinnanzi alla martire, che si fa simbolo della crisi dell’Islam attraverso la costante associazione fra corpo femminile, parole e violenza. Neshat sembra voler liberare qualcosa che è imprigionato nell’inconscio collettivo delle società dell’Islam contemporaneo: come se la libertà, per poter prendere forma, dovesse delinearsi nell’occhio in bianco e nero del fotografo.
Così il sociologo e politico Khaled Fouad Allam definì il lavoro dell’artista. Neshat attraverso le sue foto e i suoi video indaga il ruolo della donna nella società Islamica. Volti velati, spesso ricoperti con versetti è la cifra stilistica che contraddistingue il lavoro dell’artista.
Shirin Neshat, Allegiance with Wakefulness, 1994; stampa alla gelatina d’argento con calligrafia, 118,7 x 134,62 cm; Denver, Denver Art Museum.
Nella sua celebre serie fotografica denominata Women of Allah, concepita tra il 1993 e il 1997, l’artista riassume gli aspetti della sua vicenda biografica. Il suo essere donna, una donna iraniana, si lega ad una riflessione nei confronti del suo Paese, profondamente mutato che dona però nuova linfa alla sua ricerca. Inizialmente l’artista legge ed indaga il corpo della donna, come soggetto unico, controverso legato all’idea di vergogna, peccato e sensualità nella cultura islamica. L’artista eleva la donna come figura “potente”. Ritratte in primo piano, in posizione frontale, risultano immobili ma al contempo sono pronte all’azione. Avvolte da un’atmosfera silenziosa, carica di tensione, data dal contrasto netto della fotografia in bianco e nero esprimendo così sensazioni di spaiamento, di estraniazione, e di perdita, legate all’esperienza dell’esilio e alla nostalgia che l’esule prova al suo ritorno.
Le donne ritratte nello hijab, velo tradizionale, hanno un aspetto ambiguamente minaccioso. In Seeking martyrdom, variation N.1, del 1995, o in Faceless from Women of Allah Series, del 1994, le donne sono armate. Esse scrutano il fruitore in modo inquietante. Lungo le porzioni della pelle, del viso o delle mani, compaiono scritte in Farsi minuziosamente vergate. Questa serie fotografica mette in luce la condizione della collettività delle donne iraniane affrontando il tema dell’identità.
Shirin Neshat, Seeking Martyrdom - Variation #1, 1995; stampa alla gelatina ai sali d’argento e inchiostro, 155 x 102 cm, edizione 1/3.
Il collaboratore dell’artista, Shoja Azari, dichiarerà:
Questi lavori indicano un passaggio della ricerca della condizione primordiale di esiliata, al tentativo di costituire un’identità nomade contrapposta alla diaspora orientale.
Queste parole mi portano con la mente ad un’opera letteraria, trasposta in animazione dai registri Marjane Satrapi, Vincent Paronnaud, Persepolis graphic novel dell’autrice iraniana Marjane Satrapi.
Marjane come Shirin è una donna che ha vissuto due vite. La prima la vede in famiglia a Teheran. Appartenente ad una famiglia nobile, attivi politicamente, in seguito esule dalla sua terra dopo la rivoluzione. Satrapi conobbe la rivoluzione e la guerra contro l’Iraq. Durante la guerra, Marjane ha dovuto lasciare il suo Paese mal sopportando il clima instaurato dal nuovo regime: ad appena 14 anni viene mandata a Vienna in un liceo francese. Tornata in Iran, studia Belle Arti, ma i suoi progetti sugli eroi, e soprattutto sulle eroine, della mitologia iraniana, non convincono il regime ed è costretta a lasciare di nuovo il suo Paese. Dopo aver studiato Arte a Strasburgo si trasferisce a Parigi, dove tutt’ora abita. La sua opera più nota, Persepolis, romanzo autobiografico a fumetti illustra la sua “doppia vita”. Persepolis descrive la sua vita prima della rivoluzione e ai suoi albori, la sua vita da adolescente come esule in Europa fino all’età adulta. Acclamato dalla critica Persepolis cattura il suo lettore per le tavole marcate in bianco e nero e per via del suo modo narrativo. L’autrice racconta la vicenda biografica con sottile ironia e piglio politico, ereditato dalla madre e dal nonno, attraverso episodi di vita quotidiana.
Dall’infanzia all’età adulta l’autrice ripercorre non solo la sua storia ma la storia di un popolo dal 78 agli anni 90. Dalla caduta dello Scià fino alle dure leggi del nuovo regime dove le donne non hanno più nessun diritto, accusata indegna se solo una ciocca di capelli le fuoriesce dal velo. In una città che perde il suo splendore anche gli abitanti perdono il loro vigore e per proteggere la loro bambina, la loro donna, i genitori di Marjane le procurano un visto per l’Occidente. Nel periodo viennese Marjane vive una vita a metà, in crisi tra le sue origini e la ricerca della sua identità. Si ritrova esule in un Paese che non la accetta. L’Europa non accetta “l’altro”, l’Oriente si piega all’Occidente. La nostra protagonista, come molti esuli, si adatta alla cultura occidentale leggendo e assorbendone il più possibile per essere accettata da una cultura che non si adegua all’altro. Non c’è incontro né dialogo tra essi.
L’opera di Marjane come quelle di Shirin ci raccontano uno spaccato di storia contemporanea che ci deve far riflettere su quanto ancora oggi ci sia da fare. Mobilitarci innanzitutto per accogliere pienamente l’esule. Le opere di queste artiste sono opera di denuncia dei diritti umani, esse ci mostrano il lato celato, combattivo della resistenza delle donne Iraniane.
Bibliografia
F. Poli, M. Corgnati, G. Bertolino, E. Del Drago, F. Bernardelli, F. Bonami, Contemporanea. Arte dal 1950 a oggi, Electa, Milano 2012.
Sitografia
Filmografia
Marjane Satrapi, Vincent Paronnaud, Persepolis, 2008.
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