Una storia di visibilità, invisibilità, infanzia e memoria
di Clara Sorce
La storia che sto per raccontarvi è invisibile. Invisibile come lo sono le emozioni e i sentimenti che spesso non esterniamo con il corpo, con la mimica facciale. Invisibile come le storie di donne e bambini che hanno tessuto le trame della storia dell’umanità.
Questa storia ci porta a Weimar, città della Germania, che ospitò le più brillanti menti del Settecento e dell’Ottocento, lì a cavallo tra il 1918 e il 1933 venne fondata una scuola, l’arte qui fu la materia per eccellenza: la Bauhaus, il cui significato letterale è “casa del costruire”. Fondata dall’architetto Walter Gropius, la Bauhaus, fu un luogo in cui, attorno a sé, gravitavano gli artisti più all’avanguardia dell’epoca.
Obbiettivo della Bauhaus era quello di costruire un mondo in cui tutte le arti si potessero fondere tra loro, intuizione legata alle logge dei muratori del periodo medievale.
La Bauhaus sorse in un periodo fertile e di pace, ossia la Prima Repubblica Tedesca guidata dal socialdemocratico Friedrich Ebert. La Prima Repubblica era ispirata a ideali liberali e democratici, una politica pacifista volta alle arti, alla cultura e alle scienze, dove le donne avevano diritto al voto. In quel periodo le Università furono aperte anche agli ebrei, e, a molti di questi, venne assegnato il premio Nobel. Quel vento democratico che tanto aveva mutato il Paese cessò con la crisi mondiale del 1929, le cose degenerarono sempre di più, fino a quando nel 1933 il nazismo dilagò nel Paese.
Questa descritta è la storia nota, che amaramente conosciamo bene, ma se osserviamo attentamente notiamo che oltre quella superficie ben visibile si cela una storia che cammina in parallelo. Una voce che non si conosce o che non si ascolta.
Sollevato il velo della superficie troviamo che insieme ai nomi noti che hanno animato la scena artistica di quegli anni e che insegnarono alla Bauhaus, tra i quali Paul Klee e Wassily Kandinsky, si affiancano quelli di donne, tra queste Friedl Dicker-Brandeis (Vienna, 30 luglio 1898 – Auschwitz, 7 ottobre 1944).
La figura di Friedl Dicker-Brandeis è “invisibile” come lo è la sua storia, non si può definire tale, però, per i bambini che aiutò. La sua è una storia di visibilità, invisibilità, infanzia e memoria.
Pittrice e grafica del Bauhaus e docente d’arte di origine ebraica Friedl Dicker-Brandeis fu deportata nel 1942 a Terezin.
A Theresienstadt, ghetto ebraico istituito dai nazisti presso la città ceca di Terezin, l’artista si dedicò ai bambini che, come lei, erano stati resi prigionieri dai nazisti. Quando i nazisti deportarono gli ebrei da Praga dissero loro che potevano portare con sé solo un bagaglio da 50 chili. Cosa portare con sé? Vestiario e viveri? I ricordi di una vita? La scelta ricadde sui ricordi e sulle memorie di una vita, ma questo non valse per Friedl. La donna scelse di portare con sé materiali artistici. Quel materiale fu la luce di speranza per molti bambini. L’artista scelse di portare non il passato, ma ciò che rappresentava il suo presente e che, inevitabilmente, fu la luce del futuro, della vita che sarebbe continuata ad essere, non solo per lei, ma molto presto per tanti bambini il cui presente era stato brutalmente negato e il futuro non veniva contemplato. Nelle baracche affollate del ghetto Friedl offriva ai bambini “bellezza”. Arte come pratica di resistenza all’orrore. La bellezza che si opponeva al terrore, lo combatteva. L’artista concesse ai bambini un diritto che i nazisti avevano loro negato, ossia il diritto all’immaginazione, alla fascinazione, il diritto al futuro, riuscirono, anche se per un breve attimo, ad immaginarsi nel futuro, si lasciarono il diritto di perdersi nella meraviglia della bellezza e a non pensare all’orrore, non pensarono alla sopravvivenza, si lasciarono trasportare dalla vita. Le sue “armi” ,mozziconi di colori per disegnare, scrivere il proprio nome per immaginare e nominare i colori, perché i suoi piccoli alunni non li dimenticassero. Attraverso i materiali di recupero creava momenti di gioia dove i piccoli erano liberi di creare e manipolare lasciandoli liberi di immaginare.
L’artista era consapevole del grande valore terapeutico e salvifico dell’espressione artistica. Diede loro l’opportunità di rifugiarsi nel sogno, nell’immaginazione, e immaginando i bambini vissero a pieno.
Ella attuò modalità e forme tipiche di un intervento arteterapeutico. Friedl non era nuova alla metodologia dell’arteterapia. Il suo cammino, dopo gli esordi artistici e la Bauhaus, si intrecciò con quello di Edith Kramer, pioniera dell’arteterapia americana. Le due iniziarono a collaborare, insegnando ai figli degli ebrei rifugiatisi a Praga. Effettuarono le primissime osservazioni sul valore terapeutico dell’arte usata con i bambini, specialmente con quelli che vivevano in condizioni di forte disagio emotivo. Tuttavia le loro strade si divisero, la Kramer, per sfuggire alle persecuzioni naziste, si trasferì negli Stati Uniti, dove sviluppò, negli anni a venire, un vero e proprio “metodo” a partire dalle idee e osservazioni sulla terapia d’arte, frutto della collaborazione con la Dicker-Brandeis; quest’ultima, invece, pur avendone l’opportunità, rinunciò più volte a fuggire dall’Europa, per non separarsi dal marito.
La sua passione e vocazione per l’insegnamento non si spensero mai, fino agli ultimi istanti della sua vita. Quelle preziose produzioni dei suoi allievi li nascose e custodì gelosamente, come un tesoro prezioso. Nascose più di quattromila disegni e dipinti in due valigie. Opere che dopo la guerra furono portate a Praga e, ancora oggi, sono conservate al Museo ebraico della città.
Le produzioni dei bambini testimoniano un contesto di degradamento, fatto di mancanze di cure e affetto. Bambini e ragazzi erano privi di punti di riferimento. Quotidianamente affrontavano situazioni traumatiche accumulando un considerevole stress emotivo. Tutto ciò emerge dai loro disegni:
nella frammentarietà degli elementi, nell’assenza di una struttura unitaria e ordinata e nella perdita di chiari riferimenti spazio-temporali. Molti di questi bambini vivevano in uno stato di torpore, quando non di vero e proprio shock, estraniandosi fino a perdere il senso della realtà. Scopo della Dicker-Brandeis era quello di curare le loro ferite emotive e psicologiche, partendo dalla consapevolezza che l’arte e l’atto artistico avessero un “potere” curativo e potessero svolgere un ruolo fondamentale nel miglioramento del benessere psichico. (Chiara Quici, PSICOART n. 6 – 2016)
Alla fine di ogni lezione, in cui i bambini e i ragazzi si cimentavano in attività laboratoriali desunti dalle pratiche apprese e insegnate alla Bauhaus o in lavori collettivi in cui si favoriva lo sviluppo di un gruppo coeso e cooperativo, la Dicker-Brandeis catalogava i disegni per data e autore e, successivamente, li analizzava e interpretava, cercando di individuare ansie e disagi specifici emersi dai lavori di ciascuno, per poi aiutarli a prenderne coscienza al fine di liberarsene.
Con questa idea che la presa di coscienza dei propri disagi interni permetta di sanare le ferite emotive, l’artista non soltanto si è posta nel solco delle ricerche della psicanalisi freudiana, ma ha anticipato uno dei concetti cardine dell’arteterapia moderna: «l’idea che l’arte permetta di dare forma concreta ai contenuti emotivi dell’inconscio, consentendo al soggetto di esternarli, osservarli da un punto di vista esterno e prenderne emotivamente le distanze, riuscendo, così, a elaborare e superare i conflitti irrisolti».
Friedl fu uccisa ad Auschwitz nel 1944.
Significative sono le parole contenute in Meraviglie mute di Marcella Terrusi dove l’autrice esprime, con parole evocative, l’apportata benefica dell’intervento della Dicker-Brandeis.
L’evidenza di quelle opere infantili continua oggi a testimoniare l’individualità e l’esistenza di quei bambini. A dimostrare che l’arte, l’espressione, la ricerca della bellezza e del senso del visibile sono risorse che ci permettono l’indispensabile esercizio della relazione con ciò che è invisibile perché non è più, non è qui, non è ora, non è ancora. (Terrusi, pag. 171)
Non “vediamo” la storia di Friedl, non la si conosce, nella storia che ci è stata tramandata c’è sempre un’altra verità, una più profonda, per cui bisogna scavare. Verità, chiediamoci, allora, cosa realmente è la verità. Questa domanda tormenta i filosofi di ogni tempo, non sappiamo cosa sia la verità. Aletheia, la chiamavano così i greci, letteralmente significa “lo stato del non essere nascosto”, quando pensiamo a qualcosa che non è nascosto pensiamo a ciò che è palese, reale. Non sarà un caso quindi che i greci la chiamassero proprio così, la verità era già all’ora, uno svelamento, una rivelazione. Tuttavia non è cosa semplice rivelare chiaramente e universalmente, forse per questo uno dei misteri della vita umana è rendere evidente cosa sia l’evidenza. Allora solleviamo individualmente il velo dell’invisibilità, troviamo storie che ci commuovano che ci facciano riflettere quanto l’arte, in senso lato, possa essere salvifica. Troviamo verità per noi, e rendiamo evidente l’insieme di queste, in una prospettiva universale. Alla verità che la storia ci consegna aggiungiamone altra, per questo forse all’uomo non è dato sapere cosa sia la verità, perché la costante ricerca di questa attraverso la bellezza, ci permette di rimanere vivi, meravigliarci e vivere la vita a pieno. Non smettiamo mai di rincorrere la verità, aggiungiamone sempre, indaghiamola con i mezzi che ci meravigliano, con la bellezza, l’arte. Ad oggi il nostro pensiero va alle guerre che sti stanno consumando nel nostro globo che si tinge di tristezza. Spero, e mi piace pensare, che anche in Ucraina e in Iran ci sia una Friedl che lotta con colori e pennelli, e che tanti altri cerchino storie come queste, per restituire sempre un messaggio, quello che la vita è più forte, perché si nutre di verità e bellezza. Sono questi i mezzi che sempre hanno permesso di vincere e superare gli orrori, donando un rifugio dentro ogni uomo.
Voglio concludere questa storia mettendo in evidenza le parole di Friedl. Nei suoi scritti emergono concetti di libertà di espressione e la ferma convinzione che l’unico modo per consentire al bambino di esternare il proprio mondo interiore attraverso l’arte sia lasciargli la possibilità di esprimersi liberamente, in contenuti e forma, secondo il suo grado di sviluppo estetico e delle abilità grafiche e senza forzarne i progressi dall’esterno per assecondare canoni artistici, come quello della “bella forma”, molto più vicini al gusto estetico dell’adulto che a quello del bambino:
Se vogliamo approcciarci al disegno infantile con soddisfazione e profitto, dobbiamo anzitutto “silenziare” i nostri desideri e le nostre aspettative riguardo alla forma e al contenuto dei disegni, accettando con gratitudine ciò che ci viene offerto. Le nostre richieste sono spesso basa- te su false idee riguardo il bambino e ciò che egli vuole comunicarci. Tali richieste derivano da pregiudizi di un maggiore o minore valore estetico da parte dei genitori che, per ambizione, vanità o timore, commettono l’errore di considerare già conclusa la difficile fase dello sviluppo del bambino e finiscono per accelerane le tappe. […]. Peraltro, se forziamo, con i nostri comandi, lo sviluppo delle abilità grafiche dei bambini, che avviene in maniera diversa nel tempo, priviamo loro della possibilità di esprimersi creativamente e noi della possibilità di dare uno sguardo a ciò che hanno dentro. Le richieste degli adulti, dove sono ingiustificate, sfociano verso ambiti “altri” e che nulla hanno a che vedere con il disegno crea- tivo: richieste come la purezza della linea, l’accuratezza e l’abilità di riprodurre determinati contenuti hanno a che fare piuttosto con la geometria, il disegno ornamentale, di moda o di illustrazione, e non riguardano invece il di- segno creativo. Che cosa caratterizza il disegno creativo? Il suo scopo è lasciare al bambino la massima libertà di espressione, a volte in accordo con il suo umore, altre volte più attenta agli elementi formali. Tutto deve essere lasciato al bambino.
E ancora
Il bambino dovrebbe poter esprimere liberamente quello che vuole dirci di se stesso: ogni idea o fantasia – utile, o infruttuosa, o persino senza senso, e nel linguaggio che conosce. In questo modo, otteniamo dai suoi lavori una preziosa conoscenza dei suoi vissuti (in questo, l’assistenza di uno psicologo è assai consigliabile), dei suoi interessi, delle sue inclinazioni e delle sue conoscenze... Richiedere una “corretta” espressione formale, in questi casi, è quanto mai fuori luogo; è la spontaneità espressiva che conta. Anche se, in una certa misura, i bambini hanno bisogno di essere guidati, si deve prima lasciare loro la possibilità di esprimere se stessi. L’indipendenza nelle scelte, il fornire al bambino delle opzioni e il prendersi cura di lui, gli danno coraggio: gli permettono di sviluppare la fantasia, il senso critico, la capacità di osservazione, la costanza e dopo (molto do- po) anche il buon gusto.
Bibliografia
C. Quici, Friedl Dicker-Brandeis: arteterapia nel ghetto ebraico di Terezìn, PSICOART, n.6, 2016.
M. Terrusi, Meraviglie mute. Silent book e letteratura per l'infanzia, Carrocci editore, Roma 2020.
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